IL MAGO DI LUBLINO
Opera di un respiro universale, intrisa di umanità, di interrogativi e di sentimenti
di


Il Mago di Lublino è il titolo del romanzo scritto da Isaac Bashevis Singer già premio Nobel per la Letteratura nel 1978.
L’opera era apparsa a puntate nel 1959 su un Periodico di New York in lingua yiddish (il “Forverts”) e successivamente edita in inglese nel 1960.
Il Mago di Lublino è l’ennesimo memorabile personaggio che ci lascia la penna dello scrittore dopo altri singolari protagonisti raccontati ne “Il Ciarlatano” o in “Keyla la rossa” (sempre nel catalogo Adelphi).
Yasha Mazur (Il Mago) è in realtà una sorta di illusionista e ipnotizzatore, un acrobata capace di fare salti mortali sulla fune, un eclettico saltimbanco abile ad aprire serrature e liberarsi dalle catene, che aveva acquisito una qualche notorietà nella Polonia dell’epoca (fine ottocento) e che, sotto la guida del suo agente (dal quale non si sentiva valorizzato abbastanza), girava il Paese per mettere in scena i suoi spettacoli, con l’ausilio di animali addestrati e della giovane aiutante Magda. Quest’ultima è soltanto una delle tante donne che affollano il mondo di Yasha, che pure ha una moglie (Ester) la quale pazientemente lo aspetta nella casa di Lublino al ritorno dai viaggi.
Infatti nella vita del Mago trovano spazio, tra le altre, anche una donna di dubbia reputazione che gli si concede liberamente (Zeftel) e soprattutto Emilia, una vedova cattolica della quale il Mago è innamorato, oltre alla di lei figlia adolescente per il quale Il Mago nutre ambigui sentimenti.
Nell’attesa del prossimo spettacolo – nel quale Yasha avrebbe introdotto un nuovo repertorio – si snoda la trama, che tuttavia non intendiamo anticipare.
Il romanzo è permeato da tematiche tipiche del mondo yiddish familiare allo scrittore, tematiche e atmosfere sempre presenti nelle opere di Singer e palpabili soprattutto nella meravigliosa raccolta di racconti “L’ultimo Demone “(edizione Garzanti).
Tuttavia l’opera ha un respiro universale proprio perché è intrisa di umanità, di interrogativi e di sentimenti nei quali chiunque potrebbe rispecchiarsi.
Yasha, di natura irrequieta e vagamente incline all’autodistruzione, è continuamente combattuto fra buoni propositi e l’incapacità di attuarli.
Egli vive nell’attimo e un momento pensa di fare una cosa, ma subito dopo si trova catapultato in una diversa situazione; medita di fuggire con Emilia, sia pure a costo di pagare un prezzo elevato, e tuttavia si preoccupa (ma non più di tanto) della sofferenza che potrebbe provocare alla moglie e alle altre donne delle quali non può fare a meno.
Il dilemma continuo del protagonista, tormentato dai dubbi e incapace di cambiare la propria esistenza, pur volendolo, è frutto della sua pigrizia mentale, della sua incapacità di decidersi (“Non riesco a decidermi su niente, si disse, è questo il problema”).
Yasha è specialmente combattuto fra un istintuale desiderio di carnalità e i piaceri della vita da una parte e dall’altra un anelito alla spiritualità, che lo porta smarrito a soffermarsi nelle sinagoghe e nelle case di studio e di preghiera, ove ritrova le sue radici e assapora quel mondo che gli è familiare, ma dal quale si è allontanato, pur sentendosene irrimediabilmente intriso.
La spiritualità, invero, permea tutto il romanzo e fa sì che il protagonista si interroghi continuamente sulle ragioni dell’esistere e sulla natura umana, sull’anima e su cosa c’è dopo la vita (“Soltanto il corpo muore. L’anima continua a vivere. Il corpo è come un indumento…”), sulla presenza di Dio (“Questo mondo con la sua saggezza eterna deve pur essere stato creato da una mano…Come si può chiamare questa forza, se non Dio?...E che differenza fa se la si chiama natura?”), ma anche sull’esistenza del Male (“gli animali erano capaci di vedere la potenza del male”).
La contraddittorietà del personaggio si manifesta con evidenza nei suoi comportamenti.
Egli viene dipinto come inguaribile fedifrago, come quel “mago” che non godeva della stima della comunità, come persona non osservante dei rituali della sua religione, tanto che ai moralisti che lo riprendevano rispondeva: “Sei stato in cielo e hai visto Dio? Che aspetto aveva?” ovvero faceva discorsi da ateo.
Al contempo Yasha è capace di contemplare la grandezza della natura e riconoscere che la mano di Dio è evidente ovunque, tanto da esclamare: “Oh, Dio Onnipotente, tu sei un mago, non io!”.
Al protagonista ben si attaglierebbe il motto “Pecca fortiter, sed crede fortius”.
Infatti, malgrado la sua condotta di vita, Yasha non riesce a dimenticare il suo rapporto con il Creatore, forse consapevole del fatto che Dio non lo ha dimenticato (“Sì, il Cielo lo sorvegliava attentamente. Forse perché non aveva mai smesso davvero di credere”).
E ciò lo conduce a una trasformazione, alla sua singolare scelta finale, sia pur dettata dal senso di colpa per un tragico evento del quale si sente responsabile, come un atto di redenzione, tanto che la gente arbitrariamente finisce per riconoscergli un alone di santità, pur senza che egli avesse fatto alcun miracolo.
Gustando un simile romanzo, così denso di contenuti e spunti di riflessione, viene infine naturale immaginarne una trasposizione cinematografica ad opera di Woody Allen, autore notoriamente attratto dalla cultura ebraica come dal mondo della magia e dell’illusionismo, ma anche attento e ironico osservatore dell’animo umano al pari di Singer.


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