CONTRO OGNI RAGIONE
Dada, il movimento artistico più dirompente e misterioso della storia
di Alfredo M. Barbagallo

“Dichiaro che Tristan Tzara trovò la parola Dada l’8 febbraio 1916 alle sei di sera. Ero presente con i miei dodici figli quando Tzara pronunciò per la prima volta questa parola, che destò in noi un legittimo entusiasmo. Ciò accadeva al Cafè de la Terrasse di Zurigo, mentre portavo una brioche alla narice sinistra.”
Basterebbero queste poche parole – non dichiarate da un imbrattatele in via di nevrotizzazione ossessiva, ma da uno dei più grandi artisti del secolo, Hans Arp – a far drizzare le antenne ad ogni appassionato di insolito sulla faccia del nostro pianeta.
Un insolito, apparentemente ironico, in realtà serio, grave, profondo; per certi aspetti definitivo; un insolito legato ad un moto di pensiero che avrebbe per sempre devastato le certezze delle società di derivazione ottocentesca, per prevenire all’ inquieto e barocco Duemila che viviamo.
Un insolito nato da un’assurda rovina – quella della Prima guerra mondiale -; dal disperato e pazzo sogno di un gruppo di anarcoidi giovani intellettuali il cui urlo avrebbe raggiunto il mondo intero, anche oggi, a novant’anni esatti di distanza temporale. 
Ma cos’è, allora, Dada? Dal punto di vista letterale, nulla. Per alcuni, è un balbettio infantile significante, genericamente, “cavallo a dondolo”; per altri, una satira sulle pronunce slave di alcuni artisti del gruppo originario.
“Dada è un microbo vergine che si introduce con l’insistenza dell’aria in tutti gli spazi che la ragione non ha potuto riempire di parole e convenzioni “dichiara ancora, ineffabile, Tristan Tzara, il creatore del suo nome. Contro linguaggio, logica; contro la ragione stessa, ognuna possibile. Contro tutto. 
Ma andiamo con ordine.

È il 1916, e da tempo, nella cosmopolita Zurigo della neutrale Svizzera, si è in qualche modo stabilita una specie di comunità di artisti, giunti da ogni parte d’ Europa per sfuggire al massacro della Grande Guerra; in parte esuli, in parte renitenti, in parte riformati; qualcuno con in tasca un provvidenziale certificato di insalubrità mentale. 
Le migliori menti artistiche della loro generazione. 
Personaggi colti e spesso tragici, dotati individualmente dei grandi mezzi espressivi di quella grande epoca. Ed in cerca non o non solo della salvaguardia delle loro esistenze, ma di quella, ben più importante, del loro pensiero, dal tremendo martello dei nazionalismi incrociati.
Uno di loro, Hugo Ball – “sempre vestito di nero come un prete”, a metà tra l’imbambolato e l’imbronciato – fonda in un malfamato vicolo zurighese dal nome curioso, “la via dello specchio”, un localaccio che sarebbe divenuto celebre, il “Cabaret Voltaire”. 
E’, sin da quel piccolo ambiente che poi raggiungerà tutto il mondo, tra birre, fischi e sigari, una ribellione contro tutto e tutti. Un insieme di serate sperimentali e pazzoidi, in parte teatrali, in parte figurative o persino musicali, dove si sperimenta l’assurdo, il grottesco, spesso apertamente il ridicolo, e comunque, sempre e ad ogni costo, l’irrazionale. Per la prima volta, apertamente.
“O gadj beri bimba “è il titolo della più nota composizione del misticheggiante Ball. Fonema di gusto esotico ma assolutamente privo di senso alcuno, recitato con fare misterioso da personaggi avvolti in armature di cartone.
È la morte della ragione ad essere volutamente cercata; il suicidio di un pensiero ufficiale che conduce dritto alle stragi orrende di Verdun, Ypres, Caporetto; l’assoluto di sfiducia, la ricerca di un assoluto morale nel nulla.
“Dada non è nulla”, lo diranno molto spesso. Perché in breve i dadaisti sono molti, e vale la pena citarne qualcuno.
 Il romeno Tzara, dall’elegante monocolo e dalla penna aggressiva come vetriolo; il berlinese Huelsenbeck, simbolico, intenso, spettrale; Arp, e le sue maschere polinesiane; Picabia, ed il suo vitalismo ironico e struggente; Breton, ed il suo magnifico, solenne interesse all’inconscio.
E le donne; artiste, ironiche, a volte innamorate; Emmy Hennings, Sophie Tauber, Hannah Hoch; allucinate e determinate, quanto sognanti e creative.
E tanti, tanti altri, di tutte le nazioni; con sostanziale – guarda un po’ – autoesclusione degli italiani, troppo attratti da un Futurismo solenne quanto, alla lunga, sterilmente accademico.
Il Movimento – cosa che disturba tremendamente la cultura “ufficiale” – inizia a cercare i suoi progenitori in artisti di ogni secolo, strampalati e secondari, o ironici quanto perseguitati. Ciò che un giorno, dagli stessi artisti sarà chiamata “Antologia dell’humour noir” …

I pazzi dadaisti ne combinano di tutti i colori; il movimento si estende a macchia d’olio, in tutta Europa, sino all’America; volano nelle scadenze e nelle esibizioni insulti di ogni tipo, querele, persino sfide a duello; il pubblico irride, si infuria, origina proteste clamorose, senza rendersi conto di cadere nella trappola dei sapienti provocatori.
Da tutte le parti piovono mattonate dadaiste. Da New York, il beffardo Marcel Duchamp – freddo giocatore di scacchi – aggiunge un paio di sottili baffetti neri ad una riproduzione della Gioconda, suscitando un putiferio.
Cosa mai potesse significare, se l’androgino che è in ognuno di noi, se una connotazione sottilmente angelica, era (ed è tuttora) l’ossessione dei critici; quintali di volumi; cui Duchamp rispondeva con un’alzata di spalle.
Man Ray introduce il nuovo credo al mondo delle immagini; mentre nel nascente Cinema, sta per nascere il celebre intermezzo dadaista “Entr’acte “  (l’immagine del barbuto Picabia in veste di danzatrice femminile ne diventerà poi una specie di manifesto generale).
Ovunque, le SERATE DADA originano avvenimenti talmente strani da non potere del tutto essere previsti dagli stessi organizzatori.
Nel suo “Secondo Manifesto Cannibale”, Francis Picabia stesso introduce una novità teatrale che sarà molto imitata, cioè quella del finto spettatore reclamante (in realtà un altro dadaista) che viene pesantemente deriso:

( … )    
Spettatore (in piedi)” … Ma allora ci risiamo con le porcherie, con le sozzure!!! Non può parlare una lingua civile, lei, no? “”
Teatrante “Ma quali porcherie, sono solo nella sua povera mente malata! La vita è una porcheria? Secondo lei, far figli è una porcheria?”
Spett. “La vita è ciò che vi è di bello! “
Teatr. (dopo vari insulti) “…Vuole sapere cosa le dà fastidio, in lei, di Dada? Lei vorrebbe essere imbonito, farsi convincere a forza di martellate nel cervello; e invece Dada di lei se ne frega! “
Spett. “Per cortesia, vorrebbe essere così gentile da spiegarmi perché Dada se ne frega di me? “
Teatr. “Perché lei è un serio; quindi un imbecille…”

Critici e polizie non riescono, nei fatti, ad arginare un vero e proprio fenomeno di costume, che, in fondo, lo stesso pubblico ama perché supremamente trasgressivo.
Mostre “scandalose “vengono chiuse. L’utilizzazione consapevole e divertita della menzogna propagandistica (come la annunciata presenza, nelle Soireè, di personaggi illustri neanche avvertiti, come Chaplin, ad esempio) da parte dei dadaisti sollecita sempre nuovi scandali. 
Si cerca il nulla, il nulla assoluto.
Così, tra clamori e scenate, il movimento, ormai mondiale, giunge in pochi anni al punto di non ritorno. Non la critica ai quieti ed ipocriti comportamenti borghesi, critica condivisa dagli artisti di ogni idea e generazione, ma alla razionalità stessa, ai valori di orientamento della vita. 
Ad ogni comportamento, nessuno escluso. Diverrà qualcosa più che un gioco di parole; “Dada non è nulla”, quindi, come si diceva; o addirittura “Dada è contro Dada”. 

Non poteva, ovviamente, durare a lungo. La distruttività totale del più dirompente movimento artistico della storia non avrebbe che potuto, alla lunga, condurre che alla ovvia via del silenzio collettivo o persino all’autoannullamento individuale, come in molti casi avverrà. 
E saranno dei suicidi, numerosi, stranianti, evidenti ed a volte clamorosi quanto a volte mascherati. Come un giorno poi accadrà alla cultura rock, la morte della ragione porta alla ragione della morte.
E gli intellettuali, alla lunga, si autodistruggono. 
L’avventuroso Arthur Cravan si smarrirà volontariamente per sempre, con la sua barca, nel Golfo del Messico. Il dandy Jacques Rigaut si sparerà un colpo di pistola al cuore in elegante frac da serata. L’ironico Jacques Vachè si avvelenerà con l’oppio, dopo essere tornato dal fronte. 
Innamorati della morte, come cavalieri medioevali; e con loro, altri, in successione; la morte, ultima dea, ultima amante, ultima meta e promessa; desiderata, maledetta, ottenuta. Sono fuochi distruttivi, ultimativi; ma in realtà, saranno gli ultimi fuochi, del disperato microbo vergine dada.

 Qualcos’altro, di importante, è da tempo accaduto; la Guerra è terminata; milioni di giovani, sporchi ancora di sudore e trincea, tornano a casa; l’Umanità, sul punto di essere travolta, riprende faticosamente il suo cammino di lavoro e sogni.
Anche i gruppi Dadaisti, ormai, si strutturano nelle città, a Parigi, a Berlino, a Barcellona. Sono ormai integralmente artisti, credono ai valori della creazione, della rivoluzione artistica; un’arte ribelle, certo, ma che comunque produce, contiene, propone.
Lentamente, dal Dada nasce, alla metà degli anni ’20, la fenice Surrealista. In un movimento nato per sfasciare, partorisce, crea, genera; la ricerca del nulla diviene ricerca dell’inconscio, delle motivazioni profonde, inconsapevoli, originarie dell’animo umano e dei suoi impulsi.
La Psicoanalisi – all’epoca agli albori – affascina gli ex dada, ora Surrealisti; dà loro un senso ed un obbiettivo trascendente; colora meravigliosamente la loro ricerca.
L’itinerario misterioso ed affascinante che in pochi anni conduce dal localetto rumoristico di Zurigo alle meravigliose creazioni planetarie di Salvador Dalì è, in sintesi, l’itinerario di crescita di ogni uomo, dalla ribellione al dolore alla ricerca del supremo; un itinerario senza fine visibile.
Quando la prima ondata pop degli anni 50 e 60, ormai fortemente commercializzata, renderà di massa il contenuto artistico originario di quei pionieri, li troverà – i sopravvissuti – ormai anziani, scettici, spesso disillusi; certo, ironicamente consapevoli del titolo provocatorio di uno dei grandi films surrealisti della loro generazione.
“Dreams that money can buy”, ossia “I sogni che il denaro può comprare”.


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